Firenze, il Ponte di Santa Trinita

a cura di Allegra Petruzzelli, pubblicato il 26/10/2023

Fotografo non identificato, Firenze - una veduta dell'Arno con Ponte a S. Trinita, 1949, cartolina, FFC037525 Archivi fotografici ICCD, Fondo Ferro Candilera
Fotografo non identificato, Firenze - una veduta dell'Arno con Ponte a S. Trinita, 1949, cartolina, FFC037525

dal Catalogo

La storia del Ponte di Santa Trinita, una delle architetture più amate dal popolo fiorentino, fonda le sue origini nell’incertezza. Pare infatti che, una delle prime citazioni riguardanti la struttura, risalga a una lettera datata 9 aprile 1560, scritta da Giorgio Vasari e destinata a Cosimo de Medici.

Nel corpo della lettera, lo studioso informa il Duca sul risultato di alcuni colloqui con Michelangelo Buonarroti, incentrati sulla ricostruzione di un ponte.

In quel periodo però, si è certi che Cosimo de Medici decise di convogliare gli sforzi fisici ed economici di Firenze verso altri progetti, come il restauro del ponte della Carraia, l’avvio della fabbrica degli Uffizi e l’ampliamento di Palazzo Pitti e Palazzo Vecchio.

Una delle fonti più attendibili sulla base della quale ricostruire le vicende cinquecentesche fiorentine è rappresentata dalla cronaca di Agostino Lapini (1515-1592), cappellano di Santa Maria del Fiore.

L’ecclesiastico annotò minuziosamente nel suo diario molti fatti sia personali, sia legati alla città di Firenze e alla famiglia Medici.

Anche in queste pagine, purtroppo, sfuggono informazioni riguardanti la fase primordiale dello sviluppo del progetto della ricostruzione Ponte di Santa Trinita, distrutto dall’alluvione del 1557.

Grazie alle epigrafi incise nei cartigli marmorei del ponte è possibile attribuire la commissione allo stesso Cosimo de Medici ma, sin dal 1564, l’opera e le scelte quotidiane sulla fabbrica del ponte vennero affidate al figlio Francesco.

Le responsabilità di ordine tecnico e organizzativo vennero demandate allo scultore e architetto Bartolomeo Ammannati (1511-1592).

Il 3 aprile 1567, come ricorda A. Lapini, “a ore 18 in giovedì si cominciò a ficcare il primo palo col castello per rifare e rifondare il bel ponte di Santa Trinita”.

Per conferire carattere e unicità al Ponte di Santa Trinita, l’Ammannati decise di realizzare degli archi ovati. Ispirandosi alle strutture presenti negli anfiteatri romani, coniugò la forma “classica” dell’arco con quella dell’ellisse, dando vita a un dettaglio immediatamente percepibile ed elegante. Così facendo veniva facilitata la salita sull’architettura e gli veniva conferita una stabilità e bellezza maggiori.

La scelta fu supportata anche da una motivazione ingegneristica: il ponte, data la sua posizione, non prevedeva il problema del transito d’imbarcazioni di notevole volume e lasciava quindi più spazio all’estro dell’architetto.

Il materiale scelto fu la pietraforte, un’arenaria a grana fine. È considerata la pietra dell’edilizia fiorentina per eccellenza, utilizzata per la realizzazione Palazzo Vecchio, Palazzo Medici, Palazzo Strozzi e Palazzo Pitti, simboli della città di Firenze. Al taglio in cava la pietraforte è caratterizzata da un colore grigiastro, che tende poi a scurirsi virando verso un color marrone-avana.

Alcune fonti datano la fine dei lavori e la successiva inaugurazione del Ponte nel 1571.

Nel 1608, in occasioni delle nozze tra Cosimo II de Medici e Maria Maddalena d’Austria, vennero posizionate alle estremità del ponte quattro statue allegoriche raffiguranti le stagioni, realizzate da  Pietro Francavilla, Taddeo Landini e Giovanni Caccini.

 

Fin dalla sua inaugurazione, il Ponte di Santa Trinita divenne il luogo deputato alla percezione della scena urbana. Soffermandosi sul punto più alto del ponte, come sostiene il poeta cinquecentesco Raffaello Gualterotti, è possibile “vedere le parti più nobili e leggiadre di Firenze”: Ponte Vecchio, la facciata di San Salvatore al Monte, la testata degli Uffizi e la sommità di Palazzo Vecchio.

Leggendo le epigrafi marmoree sulle arcate laterali è possibile carpire l’ammirazione del popolo fiorentino nei confronti del nuovo Ponte di Santa Trinita; lo stesso A. Lapini, nel suo diario, lo definisce “bello, vago e sfogato”.

La letteratura artistica seicentesca non fa altro che confermare dell’architettura dell’Ammannati e considera il ponte “uno dei più meravigliosi dell’Europa”.

La mattina del 4 agosto 1944 tutto cambiò. Il profilo di Firenze e il patrimonio architettonico italiano erano stati tragicamente rivoluzionati dalla crudeltà cieca della guerra. 

Cinque minuti avanti le ventidue”, afferma Gaetano Casoni, avvocato e membro dell’Arma del Genio, “è parso che un terremoto scuotesse la terra, abbiamo udito un boato prima sordo, poi fragoroso e un’immensa nuvola di polvere si è alzata in breve”.

Dopo un apparente ed effimera attenzione alle architetture fiorentine, le truppe tedesche in ritirata decisero di minare e far saltare la maggiorparte dei ponti che collegavano le sponde dell’Arno, per non ricommettere l’errore svolto nella capitale italiana qualche tempo prima.

L’unico superstite di quest’atto fu Ponte Vecchio e, secondo alcune versioni ufficiose, fu l’amore per l’arte e l’ammirazione per l’architettura di Adolf Hitler a impedirne la distruzione.

Fin dai primi giorni successivi allo scoppio delle mine tedesche, la questione della ricostruzione del Ponte di Santa Trinita, e in generale del centro storico della città, si fece spazio negli animi dei fiorentini.

Ad eviscerare per primo i problemi presenti nella questione fu lo storico dell’arte e politico italiano Ranuccio Bianchi Bandinelli.

Prima di gettare le basi per il reintegro del tessuto urbano, era fondamentale capire con quale mentalità approcciare la situazione: utilizzare in maniera indiscriminata l’architettura moderna o ricostruire gli edifici secondo calchi e fotografie?

Il pericolo più incombente era quello della falsificazione storica, definita da Ranuccio B. Baldinelli “moralmente repugnante e irrimediabilmente stupida, perché il suo inganno dura  poco”. In rare e particolari occasioni però, come lui stesso affermò, è possibile seguire la filosofia del “Come era, dove era”, come capitò nel caso del Campanile di San Marco a Venezia.

In questo ristretto gruppo, dal punto di vista di Baldinelli, poteva essere inserito anche il Ponte di Santa Trinita.

Nell’agosto del 1944, dopo l’istituzione della Commissione per la Rimozione delle Macerie, iniziarono i lavori di salvataggio dei materiali del ponte, che portarono all’estrazione dal letto del fiume di molti elementi scultorei.

Il mese successivo, nacque il Comitato per la ricostruzione con a capo il museologo Giuseppe Poggi.

Nonostante il dimostrato interesse e i contributi economici provenienti dall’estero, la ricostruzione del Ponte di Santa Trinita avvenne solo con forze provenienti dalla società italiana. Si prospettava una spesa di circa 170 milioni di lire.

Lo stesso Baldinelli affermò che il futuro ruolo dell’Italia sul palcoscenico europeo sarebbe stato deciso dal modo in cui si fosse ristabilita moralmente e materialmente.

Santa Trinita divenne un simbolo trascendente la propria nazione, figura dei valori morali e civili distrutti, la sua ricostruzione assunse un importante rilievo etico.

Si formarono presto due fronti: i sostenitori di una ricostruzione à l’identique contrapposti a coloro che guardavano alla ricostruzione ex-novo come un tentativo falso e tendenzioso di modificare la storia.

Tra quest’ultimi si annovera Cesare Brandi, luminare del restauro italiano, che si proclamò fortemente contrario a qualsiasi ipotesi di ricostruzione fedele. Egli definì la volontà di ricostruire il ponte come “una sostituzione brutale tramite una copia” e, a suo avviso, “l’adagio nostalgico del dove era, come era rappresenta un’offesa alla storia e un oltraggio all’estetica, ponendo il tempo reversibile e riproducibile l’opera d’arte e la volontà”.

Non mancavano però, posizioni più calmierate come quella dell’ingegnere Guglielmo De Angeis D’Ossat. Egli sosteneva che nonostante si trattasse di un’opera di difficile ricomposizione, essa era legittimata dall’esistenza di molti elementi del rivestimento originario e sicura conoscenza della forma.

Con il passare del tempo le voci contrarie al “Come era, dove era” rimasero isolate e molte finirono per ammettere la legittimità della replica del ponte per ragioni di carattere affettivo.

Nel 1946 le parti giunsero ad un accordo, il ponte sarebbe stato ricostruito utilizzando i suoi elementi originari. Fino ad allora però, l’attenzione di tutti si era concentrata sulla questione della forma, senza mai tenere in considerazione la tecnica.

Per alcuni, come Carlo Ludovico Ragghianti, la materia dell’opera d’arte era inscindibile dalla sua tecnica. Non era sufficiente riposizionare i conci superstiti ricollegandoli con elementi nuovi ma occorreva storicizzare anche il problema costruttivo, impiegando le modalità di costruzione proprie del XVI secolo.

Un altro punto di vista invece, destinato poi a primeggiare, vedeva nell’utilizzo del cemento armato la soluzione ai problemi.

Ammesso e incoraggiato dalla Carta del Restauro di Atene del 1931, il calcestruzzo armato nell’ambito del restuaro monumentale era divenuto frequente già a partire dagli anni Venti soprattutto in caso di ricomposizioni data la sua resistenza e la possibilità di distinguerlo facilmente dagli eventuali elementi originali.

Carlo L. Ragghianti, Giovanni Michelucci e Riccardo Gizdulic vennero incaricati di seguire il progetto, dal recupero dei ruderi originari allo studio architettonico ingegneristico.

Nell’aprile del ’49 Emilio Brizzi, dopo anni di calcoli e test, presentò il progetto di ricostruzione commissionatogli dal Comune di Firenze. L’idea prevedeva la realizzazione di un manufatto identico all’originale esteriormente ma con modifiche nella struttura interna in muratura, mirate a diminuire il peso complessivo gravante sulle fondazioni. Il timore maggiore era che quest’ultime fossero state compromesse dall’esplosione delle mine.

Il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici non accolse la proposta e affidò il progetto a Attilio Arcangeli che sostituì la struttura interna in muratura con un’anima in cemento armato e inserita in un guscio di pietraforte e calce idraulica.

Il 20 febbraio 1952 il Ministero dei Lavori Pubblici effettuò una licitazione privata per l’appalto dei lavori, vinto dalla ditta Fratelli Ragazzi di Milano.

La ricostruzione avvenne in 32 mesi (2 anni e mezzo) e il 4 agosto 1957, giorno del tredicesimo anniversario della sua distruzione, il ponte venne riaperto ai pedoni. Il cantiere venne chiuso il 23 dicembre 1957, non riuscendo però a sopire le critiche. Cesare Brandi ammirò il ponte ricostruito polemizzando: “Si doveva ricostruire il Ponte di Santa Trinita, non il ponte dell’Ammannati”.

All’appello mancavano ancora le decorazioni marmoree, affidate al restauro di Averardo Tosetti e Giannetto Mannucci.

Il ponte venne ufficialmente inaugurato il 16 marzo 1958 e la testa della Primavera, considerata distrutta, venne ritrovata nell’Arno nel 1961.

Fotografo non identificato, FIRENZE - PONTE S. TRINITA, 1945, cartolina, FFC037524 Archivi fotografici ICCD, Fondo Ferro Candilera
Fotografo non identificato, FIRENZE - PONTE S. TRINITA, 1945, cartolina, FFC037524

Fotografo non identificato, FIRENZE - PONTE S. TRINITA', cartolina, FFC026942 Archivi fotografici ICCD, Fondo Ferro Candilera
Fotografo non identificato, FIRENZE - PONTE S. TRINITA', cartolina, FFC026942

Fotografo non identificato, Firenze - Ponte a Santa Trinita, 1909, cartolina, FFC026157 Archivi fotografici ICCD, Fondo Ferro Candilera
Fotografo non identificato, Firenze - Ponte a Santa Trinita, 1909, cartolina, FFC026157

Bibliografia

A. Belluzzi, G. Belli, Ill ponte di santa Trinita, 2003

Bibliografia in rete

Marzo 1958: la ricostruzione del ponte a Santa Trinita, 18/10/2023 (LINK)

Il ponte a Santa Trinita, dov’era e com’era, 12/10/2023 (LINK)