Cristo Redentore. Cristo Redentore

dipinto 1500 - 1510

Cristo è rappresentato a mezza figura, con la destra benedicente mentre con la sinistra regge un libro

  • OGGETTO dipinto
  • MATERIA E TECNICA tavola/ pittura a tempera
  • AMBITO CULTURALE Ambito Veneziano
  • LOCALIZZAZIONE Museo di Castelvecchio
  • NOTIZIE STORICO CRITICHE "Il dipinto versa in uno stato di conservazione assai problematico (...). Forse anche per queste infelici circostanze conservative, la tavola ha conosciuto una circoscritta fortuna storiografica; tali aspetti la accomunano a un’altra opera malridotta, al Museo civico di Vicenza, assegnata da Lucco (ma con maggiore plausibilità) allo stesso Jacopo de' Barbari (Ferrari 2006, p. 161). A partire da Trecca (1912), è stato avanzato prudentemente il nome di Jacopo de’ Barbari (all’epoca figura assai nebulosa), ribadito con cautela in più occasioni anche da Berenson (1932 e 1958). Nella sua monografia dedicata al veneziano (1944), Servolini respinge con decisione l’ipotesi, confrontandolo con l’omologo dipinto di Jacopo conservato a Dresda, ritenuto di fattura superiore; la conclusione è però sorprendente: si tratterebbe di un’opera di gusto assai provinciale, piena di difetti, al massimo accostabile al povero Diana. Di diverso avviso Heinemann (1961), che propone il nome di Pellegrino da San Daniele e lo confronta con i suoi celebri affreschi in Sant’Antonio abate a San Daniele del Friuli. Levenson (1978) lo colloca fra le opere espunte dal catalogo di Jacopo de’ Barbari, ne segnala le modeste condizioni conservative e sostiene che la primitiva attribuzione spetta a Berenson; propone infine un accostamento tipologico alle opere di Benedetto Diana, ma non un’identità di mano. In tempi più recenti Marinelli evidenzia una cifra nordica, nei capelli e nella tensione nervosa della mano (1983) e ricorda l’attribuzione al periodo italiano di Jacopo de’ Barbari (1991a). Negli ultimi studi, è stato espunto dal catalogo di Diana (Benedicenti 2000) e da quello di Jacopo de’ Barbari (Ferrari 2006). L’accostamento a quest’ultimo, non accettabile per motivi stilistici (l’opera più vicina è comunque il Redentore di Weimar, dei primi del Cinquecento), è però significativo per un inquadramento geografico e cronologico e per alcuni comuni presupposti. Le analisi di Villa hanno riconosciuto un disegno sottostante eseguito a pennello con inchiostro bruno, di puro contorno, non sempre seguito poi a livello esecutivo; la tecnica riscontrata dallo studioso è compatibile con la grande tradizione innervata a Venezia da Giovanni Bellini alla fine del Quattrocento, fedelmente seguita anche da Alvise Vivarini. I due artisti rappresentano non a caso le pietre miliari per inquadrare la tempera in questione; quest’ultimo, in particolare, è autore di un prototipo fortunatissimo (Venezia, San Giovanni in Bragora, 1494), da egli stesso replicato in diverse circostanze o con varianti (tra frontalità ieratica e più moderno tre quarti: dal Benedicente di Brera a quello Corsini di New York) e da molti altri artisti (tra cui Diana, Montagna, Fogolino) a partire dagli esordi del Cinquecento. Un dettaglio come la mano sinistra spiega l’attribuzione a de’ Barbari (si confronti con il Doppio ritratto di Capodimonte, firmato e datato 1495). Anche la chiara matrice alvisiana sarebbe un possibile punto di contiguità (e filo conduttore anche nelle incisioni di Jacopo). Ma il carattere belliniano del quadro (che emerge bene nel bianco e nero Alinari del 1938 nella fototeca dell’Istituto Germanico di Firenze, con l’attribuzione a Jacopo de’ Barbari, e quindi nel relativo faldone) è invece un aspetto quasi assente nel suo corpus, rimpiazzato da una decisa inclinatura lombarda (al volgere del secolo) e da un perdurante afflato nordico. Pensando a Diana (dotato però di più decisi sottosquadri) e ai suoi effetti di cangiantismo perlaceo viene in mente il Salvator Mundi della National Gallery di Londra, marcato però da una diversa tornitura volumetrica. In una logica di serie storico artistica e di ‘progresso’ il dipinto Gualino alla Galleria Sabauda di Bartolomeo Montagna (1502), autore con cui il quadro veronese condivide alcune asprezze, dovrebbe valere come ante quem per una più decisa modernità (e per l’apertura di una serie da egli stesso proseguita, nonché reiterata da Giovanni Speranza); in ogni caso, serve per orientare la cronologia e confermare una datazione ai primissimi del Cinquecento" (da Simone Ferrari 2010, cat. 119)
  • TIPOLOGIA SCHEDA Opere/oggetti d'arte
  • CONDIZIONE GIURIDICA proprietà Ente pubblico territoriale
  • CODICE DI CATALOGO NAZIONALE 0500715165
  • NUMERO D'INVENTARIO 848
  • ENTE COMPETENTE PER LA TUTELA Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza
  • ENTE SCHEDATORE Comune di Verona
  • LICENZA METADATI CC-BY 4.0

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