Ancona di San Domenico. Ancona di San Domenico
ancona
1500 - 1510
Ancona composta di 24 scomparti entro listello dorato: nella fascia centrale, dall'alto: la Trinità e una monaca inginocchiata (suor Giulia Ruffo); la Madonna in trono col bambino; san Michele; san Domenico e monache domenicane. Tutt'intorno i santi Agostino, Zeno, Stefano, Cosma, Eustachio, Margherita, Pietro, Giovanni Battista, Domenico, Maddalena, Paolo, Giovanni Evangelista, Tommaso d'Aquino, Caterina, Girolamo, Nicola, Lorenzo, Damiano, Ilarione (Onofrio?), Corona. Nei due triangoli superiori l'Annunciazione
- OGGETTO ancona
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MATERIA E TECNICA
tela/ pittura a tempera
- AMBITO CULTURALE Ambito Veronese
- LOCALIZZAZIONE Museo degli affreschi G.B. Cavalcaselle
- NOTIZIE STORICO CRITICHE L’ancona era conservata in un locale del monastero di San Domenico dell’Acquatraversa, circostanza che spiega come essa sia sfuggita a tutte le fonti antiche. Può forse essere identificata nel «quadro grande in tela rappresentante santi dell’ordine» segnalato «nella camera delle madri rudiare» (probabilmente le suore addette alla ruota degli esposti) in un inventario steso il 26 giugno 1806, quando l’edificio e i suoi arredi furono avocati al Demanio in esecuzione dei decreti napoleonici (ASVr, Camera fiscale, 1806, b. 84, fasc. 1044, n. 6). Nel 1812 fu inserita da Giuseppe Bossi e Saverio Dalla Rosa tra i quadri destinati a costituire la futura Pinacoteca comunale. Il dipinto esce dall’anonimato grazie a Cesare Bernasconi, che credette di leggere nella scritta presso la monaca inginocchiata ai piedi della Trinità il monogramma di Dionisio Brevio e, non si sa dove, la data 1567 (1864, p. 306). Questa insostenibile attribuzione si è conservata con alterna fortuna fino ai nostri giorni. L’ancona non ha molto da spartire con le poche opere note di Brevio, un artista nato verso il 1510, collaboratore di Giulio Romano a Mantova, da dove fugge nel 1530 dopo aver rubato alcuni disegni per Palazzo Te. La lettura ben più convincente proposta nel "Catalogo" del 1912 da Giuseppe Trecca, che sciolse la sigla come «domina suor Iulia badessa», sposta invece l’attenzione su Giulia Ruffa (o Giulia de’ Rossi), che fu eletta badessa nel 1536 e nel 1551 fece fondere la campana minore della chiesa (Biancolini, VII, 1766, p. 188). Il velo bianco che la monaca porta sul capo è simbolo infatti della dignità abbaziale. Ma anche questi estremi cronologici sono troppo inoltrati per un’opera di tale timidezza formale. Non si dimentichi che il primitivo complesso dell’Acquatraversa, eretto nel borgo di San Giorgio, era stato demolito per ragioni militari nel 1517 e che le monache erano state costrette a cercare ricovero per molti anni in sedi di fortuna, ora in case private ora in vecchi conventi abbandonati. Solo nel dicembre 1543 poterono finalmente prendere possesso del nuovo monastero che avevano fatto costruire ex novo nella contrada di Santa Croce. È immaginabile che in questo periodo così travagliato mancassero loro le occasioni, e i denari, per commissionare nuove pale d’altare. D’altra parte, non è necessario rinunciare all’ipotesi di Trecca se si riferisce la controversa iscrizione a quella Giusta (Iusta) che secondo Biancolini fu badessa di San Domenico tra il 1499 e il 1509, cioè in anni assai più consoni alla cultura figurativa espressa dal dipinto. Queste figurette esili, inespressive come bambole, dal viso tondeggiante e dai lineamenti minutissimi, attingono infatti al repertorio corrente delle botteghe veronesi più tradizionali di fine Quattrocento, in particolare quella operosissima del ‘cespo di garofano’, cioè, come ormai è assodato, di Antonio Badile II. Rispetto a questa produzione elegante quanto ritardataria, la novità più evidente della pala consiste in un modellato più morbido e in una maggiore sobrietà decorativa, sintomi di un primo, timido aggiornamento sui modelli del classicismo centroitaliano. Non è necessario per questo ipotizzare una conoscenza diretta di Perugino, che aveva inviato sue opere a Pavia, a Cremona, a Mantova, a Venezia; o di Lorenzo Costa, giunto di persona a Mantova nel 1506. Per dipingere una pala come questa era sufficiente osservare con attenzione quanto andavano facendo gli artisti più interessanti attivi a Verona nel primo decennio del Cinquecento, da Francesco Morone a Girolamo Dai Libri, a Giovan Francesco Caroto. La relazione dell’ultimo restauro fornisce molte informazioni di natura tecnica assai interessanti. L’ancona è stata dipinta a tempera su una sottile preparazione a gesso e colla. Si tratta ad evidenza di una tempera magra, condotta con leganti a base di colla animale, come la caseina o la gomma arabica. Come è tipico di questa tecnica (che fu molto amata tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento soprattutto da Mantegna e dai suoi imitatori, anche veronesi) la pellicola pittorica si presenta arida e opaca e non risulta che sia mai stata verniciata. La verniciatura finale infatti avrebbe falsato i colori, scurendoli, ed era probabilmente sostituita da uno strato protettivo di cera. L'azzurrite del fondo si è vistosamente alterata, diventando bruna; si può ancora osservare il tono originale lungo i bordi, nei punti protetti dalla cornice. Qui è stata rilevata anche la presenza di sottili strisce di pergamena impiegate per proteggere la tela sia dalle slabbrature di tessuto causate dai chiodi, sia dalla ruggine del metallo. Le cornicette che riquadrano le figure sono state realizzate a foglia d'oro su una preparazione a bolo. (da Gianni Peretti 2010, pp. 287-288)
- TIPOLOGIA SCHEDA Opere/oggetti d'arte
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CONDIZIONE GIURIDICA
proprietà Ente pubblico territoriale
- CODICE DI CATALOGO NAZIONALE 0500715098
- NUMERO D'INVENTARIO 973
- ENTE COMPETENTE PER LA TUTELA Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza
- ENTE SCHEDATORE Comune di Verona
- ISCRIZIONI nel riquadro con la Trinità - D.S.IV. / B - capitale -
- LICENZA METADATI CC-BY 4.0