Mosè fa scaturire l'acqua dalla roccia
dipinto,
ca 1725 - ca 1726
Ricci Sebastiano (1659/ 1734)
1659/ 1734
Ricci Marco (attribuito)
1676/ 1729
Supporto montato su telaio ligneo con due esili traverse inamovibili
- OGGETTO dipinto
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ATTRIBUZIONI
Ricci Sebastiano (1659/ 1734)
Ricci Marco (attribuito)
- LUOGO DI CONSERVAZIONE Galleria Sabauda
- LOCALIZZAZIONE Manica Nuova
- INDIRIZZO Via XX Settembre, 86, Torino (TO)
- NOTIZIE STORICO CRITICHE Insieme alla Susanna davanti a Daniele (inv. 736), il grande dipinto attribuito a Sebastiano Ricci fu commissionato per interessamento di Filippo Juvarra, direttore artistico della corte Sabauda dal 1720 al 1735 (Mossetti, 1989) e, peraltro, promotore di un incarico conferito al nipote Marco Ricci per la decorazione del Castello di Rivoli (Scarpa Sonino, 1991, p. 130 n. 77). Entrambe le tele sono infatti considerate dalla Scarpa (1991; 2006) frutto della proficua collaborazione tra i due pittori, spesso adusi a spartirsi all’interno di una stessa opera la componente figurale eseguita da Sebastiano e quella più prettamente scenografica realizzata di norma da Marco (Scarpa, 2006). Tempo addietro Pallucchini (1960), Donzelli (1957) e Daniels (1976) ritenevano che la collaborazione dovesse essere circoscritta in questo caso al solo Mosè. L’esecuzione è documentata da una serie di riscontri documentari che si susseguono a partire dal 1 dicembre 1725, quando il ministro degli Affari Stranieri Del Borgo scriveva all’inviato sabaudo a Venezia, il cavalier Marini, che i due dipinti erano stati per l’appunto commissionati per tramite del celebre architetto. Un primo acconto di 1640 lire, 19 soldi e 5 centesimi è inviato il 24 dicembre di quell’anno con una lettera d’accompagnamento, nella quale si specifica che entrambi sono destinati al gabinetto giallo dell’appartamento di Vittorio Amedeo II presso il Castello di Rivoli. Il saldo di 3236 lire e 8 soldi è registrato il 15 luglio 1726 e il 20 luglio una missiva del cavalier Marini precisa che i dipinti, “riusciti di tutta perfezione”, erano stati da tempo spediti a Torino, ove venivano accolti con tale entusiasmo che il 27 novembre seguente il Savoia decideva d’inviare al pittore un ulteriore compenso di 1618 lire, 19 soldi e 7 centesimi (Baudi di Vesme, 1968). Pare pertanto imputabile a una semplice svista l’errore in cui cade la Gabrielli (1971) e la Guida del Museo (1991) che le datano al 1724. Nel 1731 le due tele furono ingrandite da Alessandro Trono, probabilmente per adattarli a una nuova collocazione (Scarpa, 2006), mentre una Descrizione compilata nel 1754 relativa alle opere d’arte ospitate nel Palazzo Reale e nel Castello di Torino li menziona nella Galleria del Castello (Pinto, 1994). Ancora nel 1776 Francesco Bartoli li segnala nella Galleria che congiunge il Palazzo Reale al Castello. Nel 1802, in vista della creazione del Museo dell’Ateneo Nazionale, i due quadri furono trasferiti al primo piano del Palazzo dell’Accademia delle Scienze (Inv. 1802; Deville in Rovere, 1858; si veda inoltre Pinto, 1987, pp. 105-109 relativamente al progettato Museo). Di lì a qualche anno Paroletti (1819) li vedeva nuovamente a Palazzo Reale nella Galleria Beaumont poi, secondo l’inventario topografico fatto redigere da Carlo Felice nel 1822, furono collocati nella Quinta Camera dell’Appartamento del piano terreno del palazzo (Conoscere la Galleria Sabauda, 1982). I cataloghi di Benna (1857) e Callery (1859) attestano la loro presenza nella sala n. 5 di Palazzo Madama e l’inventario del 1866 sullo scalone del Palazzo dell’Accademia delle Scienze, sede storica della Galleria Sabauda sino al 2012. Kutschera-Woborsky (1915) e Longhi (1961) riscontravano in tutte le opere eseguite per la corte piemontese uno stile accademico, dovuto alla contemporanea pittura francese, anche la Gabrielli (1950) sottolineava una generale impressione di freddezza. Per Pallucchini (1952; 1960) l’eccessivo accademismo della forma, che porta all’estreme conseguenze il discorso inaugurato nelle due pale di Superga, è motivo di una frammentazione della composizione e del diminuire della fantasia riccesca, che assume in quel momento toni retorici, compassati e un poco statici (Pallucchini, 1994). A parere di Rizzi (1975) le forme rassodate, il colore “porcellanoso” e la pennellata più lenta della Susanna sono indizio dell’interesse per il mondo antico manifestato da alcuni suoi committenti, primo fra tutti il console Smith, e lasciano presagire la fine della stagione rococò. Una generale impressione di raffaellesca memoria è colta da Daniels (1976), mentre a giudizio della Scarpa (2006) “i rischi di ufficialità e accademismo che le dimensioni e i soggetti potevano indurre” sono superati attraverso una sorta di “musicalità seducente” e dirompente effetto teatrale d’insieme, bilanciato dall’equilibrata cornice scenografica imputabile all’intervento di Marco e dalla cura per la resa dei particolari più minuti della composizione. L’impaginato del Mosè sarà ripreso dall’artista di lì a pochissimo nella tela eseguita per la chiesa dei Santi Cosma e Damiano della Giudecca, ora alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia (cfr. Scarpa, 2006 e Kutschera-Woborsky, 1915, pp. 403-404). Una versione probabilmente di bottega e di dimensioni ridotte è invece apparsa sul mercato antiquario intorno al 1960. [continua nel campo OSS]
- TIPOLOGIA SCHEDA Opere/oggetti d'arte
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CONDIZIONE GIURIDICA
proprietà Stato
- CODICE DI CATALOGO NAZIONALE 0100350788
- NUMERO D'INVENTARIO 735
- ENTE SCHEDATORE Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte
- DATA DI COMPILAZIONE 2012
- LICENZA METADATI CC-BY 4.0